martedì 16 settembre 2014

Acne



A scuola era sicuramente il più bello di tutti. Era incredibile: tutti i ragazzini, compreso io, gli giravano sempre intorno. Forse era perché aveva il naso piccolo e dritto, i capelli biondi che erano erbetta incolta, portati un po' di lato, che non faceva altro che toccare e arricciare tra le dita davanti ai nostri sguardi ammaliati. O forse era per gli occhi azzurri, quasi grigi, più potenti di un comando, di una bomba, dei programmi TV che ci incatenavano sul divano dopo scuola. I nostri genitori si conoscevano da tempo e io ero uno dei pochi che aveva il privilegio di giocarci insieme. Mi era concesso di muovermi nella sua stanza, tra i suoi quattro libri e i vestiti ammucchiati su una sedia, di sedermi sul letto dove la sera si addormentava e di conoscere più di ogni altro l'odore  della sua pelle (shampoo puro, sudore acerbo). Conoscevo quella stanza a memoria e mi accorgevo subito se anche un solo oggetto era stato spostato. Quando mi toccava sparivo in un altro mondo, una bolla di sapone che esplode.

Eravamo tutti follemente innamorati di lui e ciascuno credeva a suo modo di essere il prediletto. Con Gabriele andava insieme a calcetto, con Marta faceva i compiti, con Giulio mangiava caramelle gommose durante l'ora di arte, con me giocava ai videogiochi il pomeriggio o le sere in cui i nostri genitori cenavano insieme. Dava a tutti sufficente attenzione, ma rimaneva sempre distante. Per noi non era un problema: tutti ovviamente sapevamo che lui era di un altro pianeta, caduto sulla terra appena nato, dentro una navicella fiammante, trovato in un bosco, durante una passeggiata, da una coppia splendida che l'aveva adottato e ora andava a scuola come noi e veniva interrogato e si sedeva a mensa e scambiava figurine con quelli delle altre classi, ma, diavolo, era solo un compromesso: un giorno sarebbe tornato nel suo pianeta natale, dove era il principe o il re, e noi l'avremmo salutato mentre velocissimo spariva nel cosmo col suo disco volante, immergendosi nelle galassie senza fine. Noi, come al solito, saremmo sprofondati sotto terra guardando il suo sereno sguardo d'addio.
Le sue labbra erano della stessa tonalità di rosa delle Big Bubble alla fragola, la pelle era porcellana, due o tre nei ci passeggiavano sopra per farci ipnotizzare. Ci sembrava che anche le maestre avessero un occhio di riguardo nei suoi confronti, quell'istintiva simpatia che si concede alle persone belle, che hanno la pelle d'oro e gli occhi d'argento. Mi aveva insegnato ad accorgermi del mio corpo e a giocarci- un videogame dai bottoni molli e rosei. Mi aveva inconsapevolmente suggerito il rossore sulle guance e l'esplosione bianca dell'immaginazione.
Il 26 dicembre 2004, mentre un violento maremoto faceva sprofondare le coste sud-est dell'Asia disintegrandole in detriti e fango, uno tsunami di grasso sbocciava senza preavviso sulle sue guance bianche. Un guasto sotterraneo che distruggeva la superficie più liscia del mondo. Avviene tutto in modo un po' bizzarro: un fulmine si infila tra le rocce placide in fondo agli abissi, tra i pesci trasparenti e le meduse diafane, sconquassa l'acqua in un silenzio opprimente sotto litri di liquidi in movimento. Il blu è cosi oscuro che sembra nero e quando il brivido arriva in superficie l'onda è immensa, altissima, è il mare in verticale, appeso al sole con un filo, è tutto un frastuono di milioni di docce accese. La sua faccia, una spiaggia di sabbia fine, si rigò e si contorse di pustole rosse, cicatrici profonde che cercava di grattare via con le unghie. Provò a metterci di tutto sopra: creme, dentifricio, rabbia, calendula, odio, ghiaccio, argilla, fango, saliva, acqua, ostinazione, unghie, sperma, un cuscino, delle lacrime, i baci della madre, "andranno mai via?".

Le medie erano finite, le nostre strade si divisero e prendemmo due licei diversi. Il suo cambiamento improvviso era stato notato da tutti, grazie al cielo scuola era finita. Le città erano ancora distrutte, dalle strade fuoriuscivano fango e detriti senza fine. Gli oggetti umani erano diventati terra e mare, liquefatti nel suo volto quasi tumefatto- una mappa di colline, mari, monti, stati, città in continuo mutamento- una guerra tra forze oscure in atto sulle sue guance tredicenni.
Un sera, dopo che avevamo mangiato tutti insieme e i nostri genitori avevano iniziato a sorseggiare il caffè, andai con lui nella sua stanza, entrambi annoiati a morte. Non avevamo molto da dirci.
Sdraiarsi accanto a lui, nel suo letto, con un libro in mano, sentire ogni tanto il suo braccio sfiorarmi la pancia, non era più, in effetti, cosi sensazionale. Lui leggeva Le anime morte di Gogol, io avevo sfilato un libro a caso dalla libreria. In realtà non leggevo neanche una riga. Pensavo e contavo i secondi che passavano quando girava una pagina, circa 70, e pensavo ai maremoti, alla distruzione degli ecosistemi, alle catastrofi, ai tornado, alle eruzioni vulcaniche, - passavano 67 secondi e di nuovo il fruscio della pagina, il suo respiro, un leggero tossicchiare, il braccio caldo vicino al mio, una sensazione molto strana, obliqua, solo pensata, di dover essere lì.  Passarono 963 secondi, 13 pagine, 481 respiri, quando mi voltai, scrutai un momento la geografia bellicosa delle sue guance e decisi all’improvviso di baciare quel terremoto. Lui si girò di scatto, così veloce che sentii il suo fiato caldo dentro la mia bocca. Mi diede uno schiaffo, mi spinse fuori dal letto e si alzò in piedi.
-Che cazzo fai? Pensi che sono finocchio?
Uscii dalla stanza, attraversai il salotto guardando solo le gocce che scorrevano lungo le mie iridi. Era come stare in macchina mentre fuori piove e guardare il paesaggio filtrato dalle gocce di pioggia che scorrono sul finestrino. Sentii qualche voce che mi chiamava ma non mi fermai. Uscii di casa e scappai lungo le scale, sulla strada, sotto la pioggia che raffreddava la mia guancia rossa, attraversai la strada, un parco, un ponte, salii più in alto, su un monte, su una chiesa, su un grattacielo, su quella città in frantumi, distrutta dalla pioggia, da catastrofi climatiche, salii su, su una nuvola, su un grumo di vapore, su un gabbiano, nel nero dell’universo, tra i detriti cosmici, oltre i pianeti, e rimasi lì a galleggiare, tanto lo sapevo che sarebbe bastato un attimo e tutto sarebbe stato spazzato via una volta per sempre.

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