Ho trovato Detective
Selvaggi in una libreria d’usato nel centro di Roma. Mi aspettava, chissà
da quanto, nascosto sotto una pila di romanzi ingialliti. L’ho letto in due
settimane, nonostante la mole del libro e i miei impegni di lavoro,
ubriacandomi di quella scrittura febbrile e dolorosa. Bolaño rovescia le parole
sulla pagina come se avesse un’urgenza interna che il lettore (e forse lo
scrittore stesso) non riesce mai a sviscerare appieno. Il risultato è un mistero
latente che aleggia in tutto il romanzo, una sorta di inespresso, un “non so
che”, un’ansia che non riesce a sfogarsi ma che tutti noi abbiamo provato almeno
una volta nella nostra vita.
Nella prima parte del
romanzo leggiamo il diario quotidiano di Juan Garcia Madeiro, un diciassettenne
aspirante poeta che, in Città del Messico negli anni ’70, si ritrova per caso a
far parte di un gruppo di poeti avanguardisti e ribelli, i “realvisceralisti”,
capeggiati da Arturo Belano e Ulises Lima. Nella seconda parte, invece, si
susseguono le voci di ben 54 personaggi, che raccontano alcuni frammenti delle proprie
vite dagli anni ’70 agli anni ’90, e che sono testimonianze del loro incontro
con Arturo e Ulises. È come se un detective avesse raccolto una serie di interviste
a coloro che hanno conosciuto i due poeti. In questo modo, a poco a poco,
riusciamo a ricostruire le loro esistenze tumultuose in giro per il mondo, tra droghe, alcol, poesia e avventure, alla ricerca di una
misteriosa poeta.
I 54 personaggi,
ciascuno con la propria particolarità, sono accomunati da vite destinate al fallimento,
alla desolazione e alla solitudine. Sono mossi da una speranza, un'esigenza, che col tempo diventa frustrazione e sogno infranto. Noi siamo i
detective selvaggi che entrano nelle loro vite per qualche pagina, per ritrovarci di colpo rimbalzati in un nuovo frammento, nel tentativo di ricostruire una mappa strappata
in mille pezzi.
Il tempo salta e si
trasforma, come nell’episodio di Auxilio Lacountre, che nel ’76 rimane nascosta
per giorni nei bagni dell’università a seguito di una rappresaglia dei militari,
nutrendosi di carta igienica e viaggiando avanti e indietro nel tempo. Il tempo
è una memoria interrotta, o che ritorna all’improvviso per poi scomparire di
nuovo e per sempre, come nel frammento di Luis Sebastiano Rosado, che racconta
del suo ultimo incontro con il suo amante e poeta Piel Divina, ridotto in
miseria a vagabondare per le strade del Messico, sulle tracce di Arturo e Ulises.
Il tempo in Detective Selvaggi è un dettaglio
che, per qualche strano giro di memoria, ci rimane impresso nella mente,
sebbene inessenziale. È quel “non so che” che riempie le nostre vite e che ogni giorno tentiamo di acciuffare.
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