Quando
la mamma era morta il padre l'aveva sostituita con un pappagallo - una semplice
Ara Aruana, tutta blu, gialla e
verde. Antonio odiava i pappagalli; e
i loro escrementi a riccioletto, grigio-bianchi e semi liquidi, le zampe da
mummia, gli occhi lucidi e fissi. Non
sopportava i loro versi agghiaccianti, i loro sguardi sconvolti, la lingua dura
e rosa che spuntava ogni tanto dal becco arcuato e orribile. Più in generale, aveva
un'avversione totale nei confronti di qualsiasi volatile anche se, due anni
prima, quando era un piccoletto di nove anni con la testa bionda, era rimasto
affascinato dagli immensi scheletri degli uccelli preistorici che tentavano,
immobili, di spiccare il volo dalle immense sale del Museo di Storia Naturale.
"Ma questi sono finti, e sono solo un mucchietto di ossa", aveva
detto alla nonna che lo teneva per la
mano, sempre un po' sudaticcia, "gli altri sono veri, e hanno le piume", e caricò quelle cinque
lettere con tutto il disgusto che aveva in corpo. La nonna, che forse non lo
stava neanche a sentire, intenta com'era a leggere con i suoi minuscoli occhi
miopi il lunghissimo nome della ricostruzione di un uccello di plastica del
miocene, gli passò di nascosto un wafer
alla vaniglia. Poi si erano persi tra i mammut, gli ominidi e le piante del
pleistocene, e un custode del museo aveva anche sgridato la nonna per quei
wafer che nascondeva dentro la borsetta. Forse, Antonio, non odiava tanto gli
uccelli, ma le piume.
Chissà
cos'era passato nella testa del padre quando, due mesi dopo la morte di mamma,
aveva deciso di comprare una bella Ara Aruana di ottantasette centimetri di
nome Pepelù. Era tornato a casa soddisfattissimo, con quest'immensa gabbietta
bianca dove un telo nero copriva il misfatto pennuto. Quando il padre, ridendo,
aveva tolto con ampollosità il telo dalla gabbietta, e l'enorme Pepe si era
mostrato in tutta la sua psichedelia e aveva emesso un sonoro singulto, Antonio
era morto di paura e si era nascosto dietro l'enorme culo di nonna.
Nel
pieno della notte, nella striminzita cucina di casa che puzzava perennemente
dei brodi di nonna, il padre e sua madre avevano litigato bisbigliando.
-Cosa
cazzo ti è venuto in mente? Lo sai che li odia i pappagalli.
-Lo
sai che io li ho sempre voluti avere.
-Sì
ma...
-E
deve vincere questa stupida paura una
volta per tutte, è impensabile che...
-Tu
sei uno stupido. Il solito stupido.
La
nonna aveva acceso i fornelli e si era messa a friggere, nonostante fossero
quasi le due del mattino. Ma se non avesse fritto probabilmente sarebbe morta
di rabbia quella notte stessa.
Antonio
non poteva più passare nel piccolo salotto di casa. Ora, infatti, al posto
della televisione, c'era il trespolo dove l'enorme coso multicolore vivacchiava,
in un cicaleccio continuo, ossessionato dalle sue zampe nere che mordicchiava a
fasi alterne scuotendo le ali un po' spelacchiate.
Antonio
viveva in un continuo terrore. Come se non bastasse, Pepelù odiava chiunque.
Sibilava e ringhiava a qualsiasi cosa
gli passasse accanto. Solo per il padre provava un geloso affetto. E il padre
ricambiava con ostentazione.
-Vi
è presa questa fissa che vi sta antipatico, e quindi è normale che lui reagisce
così, vero Pepelù? Risponde di conseguenza. È mooolto intelligente. Provateci,
almeno, a essere carini con lui.
Lo
accarezzava sulla testa blu elettrico, gli toglieva le cacche dal trespolo, gli
versava con cura il cibo nella bacinella, la sera, per evitare che ciangottasse
tutta la notte, gli copriva la gabbietta con un telo nero.
Una
notte Antonio si era svegliato perché doveva fare la pipì. Era l'11 settembre
2001, e circa sei ore dopo due aerei si sarebbero schiantati, dall'altra parte
del mondo, su due torri altissime, decretando con un gesto epocale lo
spartiacque tra due ere. Ma, in quel momento, Antonio doveva solo fare la sua
pipì. Per andare in bagno sarebbe dovuto inevitabilmente passare nel corridoio
dove, giù in fondo, nella quiete del salotto, nascosto dietro al suo telo nero,
dormiva Pepelù. Ciabattò con gli occhi socchiusi per qualche metro, fin quando
non vide, appena illuminato dalla luce del lampione che entrava dalla finestra,
l'enorme fantasma nero che lo osservava dall'altra parte del corridoio.
Cominciò a strillare e a casa si svegliarono tutti. Si accesero luci, scesero i
vicini; la nonna, terrorizzata, andò verso di lui con la bocca spalancata, e a
momenti non scivolava sulla pozza di pipì che Antonio per lo spavento non era
riuscito a trattenere.
Il
suo odio per Pepelù era ormai diventato immenso e incontrollabile.
In
giro si parlava ormai solo delle torri gemelle quando Antonio, tornato da
scuola, si ricordò che quel giorno sarebbe rimasto da solo a casa. La nonna
doveva fare certe sue visite alla sciatica e il padre l'aveva accompagnata con
la macchina. Ma non solo solo. In casa c'era anche Pepelù.
Posò
la cartella nel corridoio. Prese un succo e una merendina dal frigo. Si sedette
sul tavolo e cominciò a succhiare carota arancia e limone. Era una bella
giornata. Dalla finestra della cucina si potevano vedere piccole nuvole bianche
immerse nel cielo azzurro. Sui fornelli c'era una grande pentola piena di sugo
preparato da nonna; i suoi sughi erano famosi, ne andava molto fiera.
Aveva
appena finito di bere il succo quando il silenzio della casa fu rotto
all'improvviso da uno strillo acutissimo. Era Pepelù. Strillò per almeno due
minuti di fila, senza mai fermarsi. Uno strillo febbrile, da far uscire fuori
di testa chiunque. Antonio, rosso di rabbia, scese dal tavolo e corse nel
salotto, che stava proprio in fondo al corridoio, dalla parte opposta della
cucina.
-DEVI
STARE ZITTO BRUTTO PAPPAGALLO SCHIFOSO!
-BA-BA-BAMBINO
B-B-BRUTTO! BAMBINO BRUTTO!
-ZITTO,
MERDA PENNUTA!
Afferrò
Pepelù con tutta la forza che aveva. Il pappagallo, colto di sorpresa, rimase
impietrito. Antonio cominciò a
stritolarlo, urlandogli in faccia insulti terribili. L'uccello si divincolava,
strillava e ripeteva tutti gli improperi che aveva imparato. Le sue dita bollite si muovevano da tutte le parti,
dal becco arcuato si dimenava la lingua rosa. Ed ebbe la meglio; con uno scatto
secco di ali si liberò dalla stretta del bambino. Volteggiò per la stanza
strillando come un'aquila. Antonio lo rincorreva da tutte le parti, saltando
sul divano, sul tavolo, arrampicandosi sulla tenda. Il telefono prese a
squillare ma non si accorse di nulla.
-VIENI
QUI VECCHIA VACCA VOLANTE! TI UCCIDOOOO!
-BAMBINO
ME-ME-MERDAAA! BAMBINO MERDAAA!
Pepelù
imboccò il corridoio e si ficcò dentro la cucina. Si impicciò dentro la
lampada, sbattendo più volte sulla credenza delle spezie. Antonio prese una
scopa e la brandì come una mazza chiodata. Si arrampicò sul tavolo, gli occhi
rossi di rabbia. Con un salto riuscì ad afferrargli la coda, e restò di sasso
quando si accorse che gli era rimasta in mano. Ma la rabbia era ancora troppo
grande in lui, il disgusto che gli iniettava gli occhi di sangue ancora non si
era placato. Prese la scopa e assestò un colpo netto al corpo dell'uccello.
Pepelù non poté fare altro che precipitare inesorabilmente dentro al sugo di
nonna mentre ancora urlava CULO SPORCO DI BA-BA-BAMBINOOO. Fece proprio splash!
e finalmente calò un po' di silenzio.
Antonio
scese dal tavolo, impietrito. La pentola stava lì, e nulla si muoveva. Era
morto? O era solo svenuto? E ora che diavolo sarebbe successo? Si avvicinò al
sugo lentamente, temendo il peggio. Una penna blu spuntava dal pomodoro
ribollito per cinque ore. Antonio immerse la mano dentro e prese Pepelù, ancora
vivo, ma tutto sporco di sugo e olio.
Doveva
assolutamente pulirlo, e farlo subito, perché per lo choc il pappagallo era
immobile ancora per poco, ansimava soltanto tra le sue mani lordate di unto e
di rosso. Accese l'acqua del rubinetto e vi immerse Pepelù. Quello cominciò di
nuovo a strillare e a divincolarsi. Il sugo scivolava via come sangue,
risucchiato nel tubo di scarico, ma l'olio restava, era ancora lì, ungeva le
penne gialle, inscuriva quel pelame elettrico che piaceva tanto al padre,
tingeva gli incavi della pelle rosata, lucidava il becco duro come una noce.
Antonio si guardò attorno, disperato, alla ricerca di una soluzione, fin quando
vide un enorme barattolo di detersivo per i piatti che splendeva davanti a lui.
Tenendo saldamente l'uccello con una mano, con l'altra afferrò il contenitore
di plastica e spremette il sapone grasso e verde sulle piume di Pepelù. Lo
strofinò ben bene creando riccioli e batuffoli di schiuma luccicante, che
invase tutto, riempì il lavandino, lordò il pavimento, si gonfiò sul corpo unto
del pappagallo. Lo sciacquò ben bene, finché tutta la schiuma non andò via. Lo
portò in bagno e lo asciugò con l'aria calda del phon.
-Nonna
è andata bene la visita?
-Diciamo
di sì, anche se le mani del medico erano ghiacciate. Era come se mi stesse
visitando un morto.
-Sempre
contro il dottore, che ti avrà mai fatto di male? È una bravissima persona.
-Anche
a me sta antipatico. Gli puzza sempre l'alito di zuppa.
-Non
ti ci mettere anche tu, Antonio. A proposito, come è andata a scuola?
-Bene.
-Li
hai fatti i compiti?
-Sì.
-Hai
risposto bene alla maestra?
-Sì.
-Hai
fatto il...
-Non
lo scocciare con tutte queste domande! Vai a controllare la pasta piuttosto,
dovrebbe essere pronta.
-Il
sugo di mamma, mi mancava proprio.
-Questo
è un'antica tradizione, lo sai piccolo?
-Sì,
nonna.
-Va
lasciato cuocere per cinque ore, né più né meno.
-Sì.
-E
poi in riposo, per altre cinque.
-Sì.
-Le
vuoi fare tu le porzioni, mamma?
Nonna
si alzò faticosamente dalla sedia. Prese il cucchiaio e la forchetta e cominciò
a mettere la pasta nei piatti.
-Cos'hai
Antonio? Sei tutto così silenzioso. Tutto bene?
-Sì.
-Hai
fame?
-Sì.
-Sei
sicuro?
-Sì
-Mettimene
di più. Abbonda.
-Così
va bene?
-Per
ora sì. Mmmmm buooono il sugo di mamma.
-Sì,
questa volta mi è venuto davvero bene.
-Ha
un sapore ancora più delicato del
solito.
-Un
non-so-che...
-Un
sapore ancora più tradizionale.
-Sì,
esatto.
-È
buonissimo.
-Che
soddisfazione.
-Brava
mamma.
-Grazie
caro.
-Antonio?
Ma non dici niente?
-...
-Forse
non ha fame.
-...
-Non
ti piace?
-...
-Antonio?
-...
-Antonio?
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