Mentre
cammino lungo il viale che porta all’università, tra piccole gocce di pioggia
che si appiccicano sul mio cappotto, mi chiedo per quale motivo le poesie
contengano quasi sempre riferimenti alla natura. Alla luna, alla terra, al
mattino, alle albe, ai tramonti. Non parlano mai di detersivi, capelli,
forbicine, schermi digitali, lampadine, penne, centri commerciali, cacca, asfalto,
tarocchi, biblioteche, coca cole, gel igienizzanti o telefonini. La pioggia fa
un rumore chiassoso quando si abbatte tra le cose, sembra una lavatrice ante litteram
che lava tutto senza centrifugare. Dalle cuffiette del mio Ipod esce un pezzo
di John Coltrane. Mi sembra di stare a Parigi, in uno di quei film in cui ci
sono molte sigarette, solo bianco e nero e dialoghi brillanti. Dei bambini
vanno a scuola, io faccio elenchi mentali. Di quello che ho fatto, di quello
che non ho fatto, di quello che mi annoia, di future liste possibili.
Ora
la pioggia ha smesso. Rimane il cielo a forma di vomito grigio, un ammasso
vaporoso di sfumature di bianchi. Entro in una caffetteria per fare colazione e
interrompo il sax di Trane. Un tipico brusio si sostituisce alla musica. Ci sono
il caldo sbattere delle tazzine, l’allegro picchiettare dei cucchiaini,
l’andante vociare dei clienti, il janisjopliano sghignazzo del barista, il
sorriso flebile della commessa, il brontolare del vapore della macchina dei cappuccini,
il rockettaro sbattere degli ombrelli zuppi d’acqua. Ordino un caffè. I
movimenti esperti dei baristi, ognuno con le sue piccole tecniche, le sue
abitudini consolidate con gli anni da milioni di caffè serviti, sono
ipnotizzanti. Da qualche parte ho letto che, per capire se un caffè è di
qualità, bisogna osservarne la schiuma. Dev’essere marroncina chiara, come la
carta che avvolge i filtri delle sigarette, ma senza neanche una macchia bianca.
Un marrone compatto e schiumoso. Quello che mi servono dev’essere uno di quelli
buoni. Il sapore è amaro, il profumo riesce a svegliare miliardi ricordi,
miliardi di mattine, miliardi di sonni scacciati via. Come facevano ad alzarsi
dal letto prima del 1492?
Vorrei
saper scrivere come Calvino, ecco perché lo odio, penso per inaspettati
collegamenti mentali mentre mi porto la tazzina alla bocca. Ma non ci riuscirò
mai. È una di quelle tante cose inafferrabili e inspiegabili della vita. Dalle
casse gracchianti del bar esce una musica talmente adatta al suo destino da
sottofondo che mi riesce impossibile memorizzarne la melodia. Un’altra cosa
inafferrabile tra le tante.
Quando
esco dal bar lancio un’occhiata al cielo. Le nuvole sono ancora più dense,
fanno una massa compatta di bianco fazzoletto trasformando la luce in modo
fastidioso. C’è una puzza terribile in giro, di terra bagnata e scarico delle
macchine. E di profumo di impiegata diretta a lavoro.
Gli
edifici dell’università sono dei vecchi ammassi di marmo incastrati
nell’asfalto, tra i rinsecchiti alberi superstiti e gli infiniti ragazzi che
vagano lì intorno. Spesso gli edifici si chiedono cosa ci faccia tutta quella
gente, con tutti quei libri, quelle chiacchiere, quel fumo che esce dalle loro
bocche. Se potessero domandarlo nessuno saprebbe rispondere loro. Tiro fuori
dallo zaino il mio blocchetto dove ogni tanto appunto qualcosa. Stappo la mia
simpatica penna a forma di fiammifero e scrivo
una domanda che mi assilla da quando il brano di John Coltrane è apparso
nella riproduzione casuale: Dove sto
andando?
Posta
così, però, non mi piace affatto. Mi siedo sui gradini della facoltà di
lettere, ignorando l’universitario mondo circostante. Ma proprio mentre sto per
cambiare punti interrogativi e intonazione trasformando la frase in una cosa
simile a Dove? Sto andando!, sento
una voce rosa pallido distruggere le piccole pareti della mia mente. Il
vociante mondo universitario rientra a pieno titolo nella mia realtà. Davanti
ai miei occhi c’è la faccia martoriata dai brufoli di un ragazzo con la riga da
una parte. Odora di dopobarba. In mano ha dei libri.
-Ehm.
Mi
dice.
-Sì?
-Sei
di qui?
La
sua voce ora è rosa maialino, di quelli grassottelli.
-Di
qui dove?
-Dell’università.
-No,
non sono iscritto, però ci vengo ogni tanto a passeggiare.
-Perfetto,
proprio la persona che cercavo.
Mi
maledico per non aver detto la verità. Si siede con apprensione accanto a me e
una zaffata del suo dopobarba sbatte con violenza contro le mie narici. Il
ragazzo ha dei radi peli grigiastri che crescono con vigore dal naso,
marroncini baffi ascellari si appoggiano insicuri sul labbro superiore. Due
piccole C bianche di saliva mettono tra parentesi gli angoli della sua bocca.
Mi sembra di averlo già visto, forse in qualche film demenziale sui teenager
americani.
-Devo
costruire una cosa.
-Ah
sì?
-Un
oggetto. Devo costruirlo qui dentro, ma non riesco a trovare uno spazio adatto.
-Certo
certo.
-…mi
serve una stanza, ma devo essere sicuro che nessuno del posto possa accedervi. Per
questo mi serve qualcuno che non sia dell’università che possa reggermi il
gioco.
-Perfettamente
logico.
Mi
fa l’occhiolino. Il colore della sua iride è totalmente anonima. Una mosca si
posa sul mio ginocchio. Il ragazzo starnutisce.
-Scusa
sono allergico.
-A
cosa?
-Ai
ditteri.
-…
-(starnutisce) Alle mosche. Comunque non
ha importanza. Devi trovarmi un luogo. Devo costruire l’oggetto.
Mi
guarda con gli occhi a forma di speranza, io gli restituisco l’espressione di
più totale e sconcertata vacuità del mio repertorio.
-Allora
mi ci porti? Mi ci porti?
Ora
la sua voce è rosa pallidissimo, fa quasi male alle orecchie. Improvvisamente
fa un grosso rutto. Puzza di cibo cinese.
-Ma
che cazz—
-Mi
devi scusare non sto proprio… bene. Però tu puoi darmi una mano. Dai portamici,
ti prego.
Provo
a fare un gesto di dissenso con la mano ma so già che è tutto inutile. Queste
persone sono così maledettamente inafferrabili da essere così incredibilmente
capaci di afferrarti senza lasciarti andare più via. Mi alzo senza speranze,
pronto a salutare la mia cara vecchia volontà. Il cielo è sempre più compatto,
sembra un enorme blocco di neve. Chissà se a Roma nevicherà di nuovo, se le
strade si allagheranno e i parchi saranno invasi da pupazzi di ghiaccio. Ma è
un’altra storia. Ora devo concentrarmi e sbarazzarmi del ragazzino al
dopobarba. Dove lo posso portare? In un’aula vuota? Nello stanzino delle scope?
Ora che ci penso all’ultimo piano del palazzo di lettere, all’attico, c’è una
strana stanza dismessa. È tutta polverosa e piena di banchi rotti ammassati
come cadaveri. Leggende raccontano di piantine di Marjuana coltivate in quel
luogo ameno. Mi preoccupa solo il cielo grigio ed elettrico. Ma decido che, non
appena lo avrò condotto lì sopra, potrò anche abbandonare Ragazzino Al
Dopobarba al suo entusiasmante destino.
Ci
facciamo strada tra i corridoi freddi, i pavimenti e le pareti ospedaliere, la
massa ingarbugliata di giovani esistenze in fase preesame. Svoltiamo un angolo,
poi un altro. Delle aule, le voci di un professore, le macchinette di caffè. I
bagni, altre scale, altri corridoi. Il cielo dello stesso colore del calzino che indosso compare inaspettatamente dalle grandi
finestre. Le scale di emergenza dove qualche ragazzo fa la pausa sigaretta. La
puzza di piedi. Folate incredibili di rutti cinesi e dopobarba. La voce color
maiale di Ragazzino. Scale infinite di marmo sporco. Le chiome degli alberi che
appaiono alle finestre. La mia voglia di andarmene. Altri bagni, altri odori.
Il sax di John Coltrane esegue un pezzo nella la tasca della mia giacca dove
l’ipod è rimasto acceso. Infine l’ultimo gradino. La porta d’emergenza e
centinaia di mozziconi di sigarette riversi per terra insieme ad aghi di pino
trasportati dal vento. Apro la porta e invito Ragazzino Al Dopobarba a
seguirmi. La sua voce ha un che di cinghialesco. Siamo all’aperto, nelle
terrazze dell’università.
Dove sto andando?, mi chiedo. Da lì si vede tutta
Roma. È avvolta da un grigiore padano. Il rumore del traffico arriva come un
miraggio. Si può vedere qualsiasi tipo di monumento, ora che ci penso la storia
del mondo è dispiegata davanti ai nostri occhi.
-Hai
una sigaretta?
Mi
dice.
-Non
fumo.
-Bene.
Questo è un problema. Volevo fumarmi un’ultima sigaretta prima che finisse il
mondo.
-…
Si asciuga il naso con il palmo della mano, qua
in alto fa parecchio freddo. È un attico davvero squallido, non lo puliranno da
secoli, penso, mentre le strane parole di Ragazzino vagano illogiche nella mia
testa.
-Scusa,
hai detto “fine del mondo”?
-Sì.
Oggi è il 21 dicembre 2012. Non sai cosa succede?
-Ho
capito. È quella mania dei Maya che vi è presa a tutti. Me lo potevi anche dire
prima, però, che era per questa stronzata che mi hai portato fin qui.
Si
porta un dito alla bocca facendomi il segno del silenzio e guarda la Roma
avvolta dalle nebbie che circonda la nostra visuale.
-Anche
se non finirà, sarà stata l’occasione per osservare questo mondo meraviglioso.
Lo sapevo che le persone, se messe alle strette, riescono a fare qualcosa di
buono.
Mi
sorride e rutta cinese. Le gocce di pioggia ricominciano ad appiccicarsi sul
mio cappotto.
Un fulmine immenso esplode sulla storia
dell’umanità dispiegata davanti ai nostri occhi.
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