mercoledì 5 dicembre 2012

La fine del mondo e il Ragazzino Al Dopobarba

Mentre cammino lungo il viale che porta all’università, tra piccole gocce di pioggia che si appiccicano sul mio cappotto, mi chiedo per quale motivo le poesie contengano quasi sempre riferimenti alla natura. Alla luna, alla terra, al mattino, alle albe, ai tramonti. Non parlano mai di detersivi, capelli, forbicine, schermi digitali, lampadine, penne, centri commerciali, cacca, asfalto, tarocchi, biblioteche, coca cole, gel igienizzanti o telefonini. La pioggia fa un rumore chiassoso quando si abbatte tra le cose, sembra una lavatrice ante litteram che lava tutto senza centrifugare. Dalle cuffiette del mio Ipod esce un pezzo di John Coltrane. Mi sembra di stare a Parigi, in uno di quei film in cui ci sono molte sigarette, solo bianco e nero e dialoghi brillanti. Dei bambini vanno a scuola, io faccio elenchi mentali. Di quello che ho fatto, di quello che non ho fatto, di quello che mi annoia, di future liste possibili.


Ora la pioggia ha smesso. Rimane il cielo a forma di vomito grigio, un ammasso vaporoso di sfumature di bianchi. Entro in una caffetteria per fare colazione e interrompo il sax di Trane. Un tipico brusio si sostituisce alla musica. Ci sono il caldo sbattere delle tazzine, l’allegro picchiettare dei cucchiaini, l’andante vociare dei clienti, il janisjopliano sghignazzo del barista, il sorriso flebile della commessa, il brontolare del vapore della macchina dei cappuccini, il rockettaro sbattere degli ombrelli zuppi d’acqua. Ordino un caffè. I movimenti esperti dei baristi, ognuno con le sue piccole tecniche, le sue abitudini consolidate con gli anni da milioni di caffè serviti, sono ipnotizzanti. Da qualche parte ho letto che, per capire se un caffè è di qualità, bisogna osservarne la schiuma. Dev’essere marroncina chiara, come la carta che avvolge i filtri delle sigarette, ma senza neanche una macchia bianca. Un marrone compatto e schiumoso. Quello che mi servono dev’essere uno di quelli buoni. Il sapore è amaro, il profumo riesce a svegliare miliardi ricordi, miliardi di mattine, miliardi di sonni scacciati via. Come facevano ad alzarsi dal letto prima del 1492?
Vorrei saper scrivere come Calvino, ecco perché lo odio, penso per inaspettati collegamenti mentali mentre mi porto la tazzina alla bocca. Ma non ci riuscirò mai. È una di quelle tante cose inafferrabili e inspiegabili della vita. Dalle casse gracchianti del bar esce una musica talmente adatta al suo destino da sottofondo che mi riesce impossibile memorizzarne la melodia. Un’altra cosa inafferrabile tra le tante.
Quando esco dal bar lancio un’occhiata al cielo. Le nuvole sono ancora più dense, fanno una massa compatta di bianco fazzoletto trasformando la luce in modo fastidioso. C’è una puzza terribile in giro, di terra bagnata e scarico delle macchine. E di profumo di impiegata diretta a lavoro.
Gli edifici dell’università sono dei vecchi ammassi di marmo incastrati nell’asfalto, tra i rinsecchiti alberi superstiti e gli infiniti ragazzi che vagano lì intorno. Spesso gli edifici si chiedono cosa ci faccia tutta quella gente, con tutti quei libri, quelle chiacchiere, quel fumo che esce dalle loro bocche. Se potessero domandarlo nessuno saprebbe rispondere loro. Tiro fuori dallo zaino il mio blocchetto dove ogni tanto appunto qualcosa. Stappo la mia simpatica penna a forma di fiammifero e scrivo  una domanda che mi assilla da quando il brano di John Coltrane è apparso nella riproduzione casuale: Dove sto andando?
Posta così, però, non mi piace affatto. Mi siedo sui gradini della facoltà di lettere, ignorando l’universitario mondo circostante. Ma proprio mentre sto per cambiare punti interrogativi e intonazione trasformando la frase in una cosa simile a Dove? Sto andando!, sento una voce rosa pallido distruggere le piccole pareti della mia mente. Il vociante mondo universitario rientra a pieno titolo nella mia realtà. Davanti ai miei occhi c’è la faccia martoriata dai brufoli di un ragazzo con la riga da una parte. Odora di dopobarba. In mano ha dei libri.
-Ehm.
Mi dice.
-Sì?
-Sei di qui?
La sua voce ora è rosa maialino, di quelli grassottelli.
-Di qui dove?
-Dell’università.
-No, non sono iscritto, però ci vengo ogni tanto a passeggiare.
-Perfetto, proprio la persona che cercavo.
Mi maledico per non aver detto la verità. Si siede con apprensione accanto a me e una zaffata del suo dopobarba sbatte con violenza contro le mie narici. Il ragazzo ha dei radi peli grigiastri che crescono con vigore dal naso, marroncini baffi ascellari si appoggiano insicuri sul labbro superiore. Due piccole C bianche di saliva mettono tra parentesi gli angoli della sua bocca. Mi sembra di averlo già visto, forse in qualche film demenziale sui teenager americani.
-Devo costruire una cosa.
-Ah sì?
-Un oggetto. Devo costruirlo qui dentro, ma non riesco a trovare uno spazio adatto.
-Certo certo.
-…mi serve una stanza, ma devo essere sicuro che nessuno del posto possa accedervi. Per questo mi serve qualcuno che non sia dell’università che possa reggermi il gioco.
-Perfettamente logico.
Mi fa l’occhiolino. Il colore della sua iride è totalmente anonima. Una mosca si posa sul mio ginocchio. Il ragazzo starnutisce.
-Scusa sono allergico.
-A cosa?
-Ai ditteri.
-…
-(starnutisce) Alle mosche. Comunque non ha importanza. Devi trovarmi un luogo. Devo costruire l’oggetto.
Mi guarda con gli occhi a forma di speranza, io gli restituisco l’espressione di più totale e sconcertata vacuità del mio repertorio.
-Allora mi ci porti? Mi ci porti?
Ora la sua voce è rosa pallidissimo, fa quasi male alle orecchie. Improvvisamente fa un grosso rutto. Puzza di cibo cinese.
-Ma che cazz—
-Mi devi scusare non sto proprio… bene. Però tu puoi darmi una mano. Dai portamici, ti prego.
Provo a fare un gesto di dissenso con la mano ma so già che è tutto inutile. Queste persone sono così maledettamente inafferrabili da essere così incredibilmente capaci di afferrarti senza lasciarti andare più via. Mi alzo senza speranze, pronto a salutare la mia cara vecchia volontà. Il cielo è sempre più compatto, sembra un enorme blocco di neve. Chissà se a Roma nevicherà di nuovo, se le strade si allagheranno e i parchi saranno invasi da pupazzi di ghiaccio. Ma è un’altra storia. Ora devo concentrarmi e sbarazzarmi del ragazzino al dopobarba. Dove lo posso portare? In un’aula vuota? Nello stanzino delle scope? Ora che ci penso all’ultimo piano del palazzo di lettere, all’attico, c’è una strana stanza dismessa. È tutta polverosa e piena di banchi rotti ammassati come cadaveri. Leggende raccontano di piantine di Marjuana coltivate in quel luogo ameno. Mi preoccupa solo il cielo grigio ed elettrico. Ma decido che, non appena lo avrò condotto lì sopra, potrò anche abbandonare Ragazzino Al Dopobarba al suo entusiasmante destino.
Ci facciamo strada tra i corridoi freddi, i pavimenti e le pareti ospedaliere, la massa ingarbugliata di giovani esistenze in fase preesame. Svoltiamo un angolo, poi un altro. Delle aule, le voci di un professore, le macchinette di caffè. I bagni, altre scale, altri corridoi. Il cielo dello stesso colore del  calzino che indosso  compare inaspettatamente dalle grandi finestre. Le scale di emergenza dove qualche ragazzo fa la pausa sigaretta. La puzza di piedi. Folate incredibili di rutti cinesi e dopobarba. La voce color maiale di Ragazzino. Scale infinite di marmo sporco. Le chiome degli alberi che appaiono alle finestre. La mia voglia di andarmene. Altri bagni, altri odori. Il sax di John Coltrane esegue un pezzo nella la tasca della mia giacca dove l’ipod è rimasto acceso. Infine l’ultimo gradino. La porta d’emergenza e centinaia di mozziconi di sigarette riversi per terra insieme ad aghi di pino trasportati dal vento. Apro la porta e invito Ragazzino Al Dopobarba a seguirmi. La sua voce ha un che di cinghialesco. Siamo all’aperto, nelle terrazze dell’università.
Dove sto andando?, mi chiedo. Da lì si vede tutta Roma. È avvolta da un grigiore padano. Il rumore del traffico arriva come un miraggio. Si può vedere qualsiasi tipo di monumento, ora che ci penso la storia del mondo è dispiegata davanti ai nostri occhi.
-Hai una sigaretta?
Mi dice.
-Non fumo.
-Bene. Questo è un problema. Volevo fumarmi un’ultima sigaretta prima che finisse il mondo.
-…
Si  asciuga il naso con il palmo della mano, qua in alto fa parecchio freddo. È un attico davvero squallido, non lo puliranno da secoli, penso, mentre le strane parole di Ragazzino vagano illogiche nella mia testa.
-Scusa, hai detto “fine del mondo”?
-Sì. Oggi è il 21 dicembre 2012. Non sai cosa succede?
-Ho capito. È quella mania dei Maya che vi è presa a tutti. Me lo potevi anche dire prima, però, che era per questa stronzata che mi hai portato fin qui.
Si porta un dito alla bocca facendomi il segno del silenzio e guarda la Roma avvolta dalle nebbie che circonda la nostra visuale.
-Anche se non finirà, sarà stata l’occasione per osservare questo mondo meraviglioso. Lo sapevo che le persone, se messe alle strette, riescono a fare qualcosa di buono.
Mi sorride e rutta cinese. Le gocce di pioggia ricominciano ad appiccicarsi sul mio cappotto.
Un fulmine immenso esplode sulla storia dell’umanità dispiegata davanti ai nostri occhi.

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