martedì 18 settembre 2012

Cosa ho visto: Il Divo di Sorrentino

 


Quello che colpisce guardando il Divo di Sorrentino è soprattutto l’intricata trama di complotti, affari, strette di mano sotterranee e torbide. Così fitte e intricate che a volte si perde il filo. Sorrentino ha voluto certamente creare appositamente questo effetto di disorientamento. Era l’unico modo per mettere in evidenza un modo folle di esercitare il potere, di un machiavellismo radicale e, di fatto, mafioso.
Non a caso l’Andreotti-Toni Servillo si aggira con passi veloci e mani intrecciate nei corridoi bui e stretti della sua casa, tormentato da forti emicranie e solo come un cane, circondato da poltrone e statue immerse nell’oscurità. Attorno a lui girano solo serpi e una moglie arresa alla freddezza e al cinismo del marito. Andreotti sembra guardare tutto dall’alto. Sorrentino non lo ritrae mai mentre prende decisioni o fa discorsi pubblici. È sempre in un luogo chiuso, spesso in solitudine, stretto tra i suoi intrighi mai svelati, come un dio cinico ed onnisciente. La sua guida è una presunta “volontà di Dio”, il suo fine è usare anche il male per ottenere un presunto bene. La musica svolge un ruolo essenziale in tutto il film: è il “viceversa” della vicenda, una “distinzione per contrasto” che rende ancora più evidente e limpido il marciume, come quando a volte serve uno schiaffo violento per smettere di fare qualcosa di sbagliato. Per esempio nel famoso bacio tra Andreotti e Totò Riina scatta una canzone allegra e pop che per legge del contrappasso svela il “ciò che non può essere né detto né visto né rivelato”. È il deus ex machina che scende dall’alto e dispiega il senso della vicenda: il male, mascherato da falso benefattore, che si insinua come una piovra nel mondo. L’Andreotti di Sorrentino è il Grande Inquisitore di Dostoevskij, ma con cravatta, occhiali anni ’80 e gobba leggendaria.

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